In Bangladesh, il numero dei bambini di strada è cresciuto rapidamente nel corso degli ultimi anni. In particolare, la città di Dhaka ha dovuto affrontare questo problema a causa dalla migrazione interna ed economica. Nonostante il numero dei bambini di strada sia impossibile da individuare, il Bangladesh Institute of Development Studies (BIDS) ha approssimato che nel 2015 il numero dei bambini che vivevano in strada era di 1,5 milioni.

Javier Ayuso, Professore spagnolo alla Università di La Rioja e Direttore del quotidiano El Paìs, si è recato a Chittagong, seconda città più grande del Bangladesh e racconta la sua esperienza a contatto con i bambini.

Buttati a terra come relitti umani dormono centinaia di persone sulle banchine della stazione di treni di Chittagong, la seconda più grande città del Bangladesh. La maggior parte di esse sono bambini al di sotto di 14 anni. Bambini di strada che formano un esercito di oltre 700.000 anime, la cui vita vale ben poco. Vagano durante il giorno per le città sovrappopolate del Paese Bengalì, il più densamente popolato del mondo, cercando qualcosa da portarsi in bocca e riposano sotto le  intemperie, in qualunque angolo, senza curarsi dei pericoli che li circondano. Ogni giorno è una nuova avventura per delle vite senza passato né futuro: importa soltanto il presente.


È mezzanotte e fa ancora caldo, oltre 30 gradi, ma oggi non pioverà. Il cielo è stellato, nonostante il fumo dei camion che attendono, con il motore acceso, a meno di cento metri dalla stazione, pronti per scaricare la loro merce nel mercato agricolo.
È da un’ora che la polizia ha smesso di pattugliare lungo le banchine della vecchia stazione vittoriana di Chittagong e i bambini non hanno perso tempo. Ci sono centinaia di loro sparsi lungo i due km di banchine in penombra. Se non stai attento li puoi calpestare.
La gente si accalca attorno al fotografo. Hanno tempo… è l’unica cosa che hanno. I bambini non si svegliano nonostante il rumore dei curiosi, gli scatti della macchina fotografica o le candele che bisogna accendere per avere un po’ di luce. Si trovano in uno stato di semi-incoscienza, dopo un’altra giornata intera di tirare avanti in strada.
Una madre dorme con i suoi tre figli, uno di loro un bebè di pochi mesi, che abbraccia in modo protettivo. Gli altri due bambini, tra i 5 e 8 anni, non lasciano nemmeno per sbaglio i sacchi di stoffa bianca dove portano i loro averi: bottiglie di plastica vuote, qualche bidone per l’acqua, ferraglia e un po’ di riso o frutta quasi marcia che hanno raccolto in strada. La madre apre un occhio inquietata dal passare del gruppo, si accerta che i suoi bambini siano lì e stringe a sé il suo bebè.
A pochi metri, due bambini tra i 10 o 13 anni sognano intrecciati tra loro. Uno con la bocca insù e con la gamba sinistra toccando l’altro, che a sua volta ha la sua mano sul corpo del primo. È un contatto reciproco, che sicuramente li fa sentire in compagnia nella notte. Respirano profondamente, senza preoccuparsi dell’ambiente ostile attorno a loro. Non ci si può permettere la paura. Devono riposare per affrontare il giorno dopo. Appena spunta l’alba, dovranno abbandonare la stazione e cercare di sopravvivere.
Sopra un muro e sotto le scale una bambina di circa 8 anni dorme supina con le mani sul petto, come la bella addormentata che non sarà mai svegliata da un principe. Fa paura vederla lì da sola, indifesa, in mezzo alle ombre della notte di una stazione. Probabilmente è arrivata a Chittagong quello stesso giorno, in qualche treno affollato di gente, scappando da qualcosa o da qualcuno e si è sdraiata sfinita senza sapere il rischio che corre. Migliaia di bambine vengono sequestrate ogni anno in Bangladesh e vendute per la prostituzione.


TOGLIERLI DALLA STRADA


Unicef, Ayuda en Acción, Save the Children e altre ONG lavorano da anni per cercare di trovare una soluzione per un problema che si aggrava sempre più. Il Bangladesh è uno dei Paesi più poveri al mondo, con il 41% dei suoi 140 milioni di abitanti che vivono con meno di un dollaro al giorno. L’84% sopravvive con meno di due dollari al giorno.

Bambini e bambine sono le principali vittime. Quasi metà della popolazione è formata da minori  e le cifre delle disgrazie sono da brivido. Un totale di 120.000 bebè minori di un mese muoiono all’anno nel Paese (14 ogni ora), la metà di loro nelle prime 24 ore di vita. La mortalità infantile è del 52 per mille, una cifra che tocca i 65 per mille nei minori di 5 anni. Ufficialmente ci sono 7,5 milioni di bambini tra i 5 e i 15 anni che lavorano nell’economia sommersa, anche se la cifra reale supera il doppio. Questi bambini contribuiscono al 20 – 30% del reddito delle loro famiglie.
Analizzando queste cifre, prima di viaggiare in Bangladesh, scandalizza il numero di bambini e bambine che devono lavorare molto piccoli per mantenere le loro famiglie. Ma girando per le vie di Dhaka (la capitale), Chittagong, Khulna, Sirajganj, Faridpur o qualunque altra città bengalì ci si accorge che coloro che lavorano e vivono in una casa sono dei privilegiati, se paragonati agli oltre 700.000 bambini di strada. Una cifra che secondo l’Unicef toccherà 1,2 milioni nel 2014 e 1,6 nel 2024.

Subuj ha 12 anni e vive in strada da 6 mesi, anche se da tre mesi dorme in uno dei rifugi gestiti dall’Unicef a Chittagong. Suo padre è morto quando lui era ancora molto piccolo e sua madre e tre sorelle, più grandi di lui, lavorano come domestiche presso famiglie. Subuj è arrivato in città accompagnato da sua madre appena compiuti i 12 anni. Voleva cercare lavoro, ma si è perso in strada, oppure è stato abbandonato, chi lo sa.
“All’improvviso mi sono trovato da solo in strada”, spiega il bambino che ha dovuto maturare velocemente “e non sapevo cosa fare”. Si è unìto ad altri bambini di strada ed ha  dormito per alcune settimane nella stazione. “Era molto pericoloso. Prima dovevi evitare i poliziotti, che ci perseguitavano con bastoni. Una volta mi hanno picchiato duramente. Dopo ti sdraiavi a dormire per terra con la paura di quello che ti poteva capitare. I primi giorni piangevo tanto e dormivo poco, ma mi sono abituato”.
Chittagong è una città piena di immigrati da altri Stati ed ha il più grande porto del Paese e anche una dinamica attività commerciale. Motivo per cui vi giungono migliaia di persone ogni anno in cerca di lavoro. Il più grande progetto di protezione per i bambini dell’Unicef riguarda proprio questo posto.
Una giorno Subuj ha saputo che molti dei bambini che dormivano con lui nella stazione di treni andavano la mattina ad una specie di scuola all’aria aperta nel parcheggio della stazione ed è andato con loro. Lì ha conosciuto altri educatori sociali dell’ONG locale Aparajevo, che collabora con l’Unicef e pochi giorni dopo già dormiva in uno dei cinque rifugi che hanno in città. “Qui mi sento al sicuro. Di giorno vado al mercato a lavorare scaricando o spingendo carri e posso guadagnare fino a 80 takas (un euro). Ma non devo più dormire in strada”.
“Cosa vuoi fare da grande?”
La risposta è rapida: “Voglio imparare tante cose e mi piacerebbe diventare elettricista”.
Nel rifugio dormono 60 bambini ogni notte e vengono a pranzo più del doppio. Hanno le docce, tre pasti al giorno e, soprattutto, compagnia e sicurezza. Vi trovano rifugio bambini tra i 6 e i 18 anni e anche la convivenza non è facile, ma è più vivibile che dormire all’aperto.
Rifat ha 9 anni, indossa solo pantaloni e ha la testa rasata. “Avevo pidocchi”, spiega con sfrontatezza. Viene da un paese del nord, a 400 km da Chittagong ed è andato via da casa tre anni fa, quando aveva sei anni, con un suo cugino che ne aveva 10.
“Perchè sei andato via?”
“Mia madre è morta e mio padre si è risposato. La mia matrigna non voleva me, né i miei quattro fratelli maggiori”. Così si è recato a Dhaka e ha iniziato a vivere in strada, con suo cugino, per circa tre anni. Circa 200.000 bambini vivono nelle vie di Dhaka, la capitale del Bangladesh, che conta una popolazione superiore ai 16 milioni di abitanti.
“Alcune volte dormiamo nella stazione e altre nei porti, vicino al fiume, ma un giorno mio cugino andò via e rimasi da solo. Non sapevo cosa fare, salì su un treno e arrivai qui. In questa stazione mi trovo meglio che in quella di Dhaka, perché c’è meno mala gente”. Sono due mesi che si trova al rifugio e dice di essere molto contento. “Ho amici, gioco, mangio e dormo senza pioggia”. Il giorno raccoglie bottiglie vuote di plastica e le vende nel mercato; ricava circa 20-40 takas al giorno (tra i 25 e i 50 centesimi di euro).
Sono le otto di sera, l’ora della televisione. Rifat vuole andare a vedere i cartoni animati, ma aspetta a rispondere all’ultima domanda. “Cosa vuoi fare da grande?”
Rimane in silenzio, triste e confuso, come se mai avesse pensato al futuro, che realmente non esiste. Alla fine, dopo aver riflettuto molto, dice guardando a Habib, il direttore del centro che fa da interprete, che gli piacerebbe lavorare in una concessionaria. E scappa correndo a vedere la tv, con i suoi 60 compagni del rifugio. Bambini che sono cresciuti in strada, ma che ritornano alla loro infanzia di fronte ai cartoni animati che ipnotizzano tutti loro, seduti a terra, scalzi, godendo di alcuni momenti di felicità.

In un angolo c’è Alauddim, 12 anni, una maglietta senza maniche azzurra e un orecchino di argento nell’orecchio destro. Ha uno sguardo furbo e si vede che si guadagna da vivere bene in strada. Sono tre mesi che dorme nel rifugio, dopo aver dormito per altri tre nella stazione. È orfano, viveva con uno zio materno, ma all’età di dodici anni lo buttarono fuori di casa, a circa 100 km da Chittagong e venne in questa città con un altro bambino, dove raccoglie pezzi di metallo da terra e li vende.
“Ho già molti soldi risparmiati”, dice con un grande sorriso “quasi 300 takas (meno di quattro euro). Spendo molto poco di quanto raccolgo in strada e sto risparmiando per aprire un negozio dove vendere molte cose. Qui mi custodiscono i soldi, perché una volta alcuni bambini più grandi mi hanno rubato in strada”. Ogni bambino ha il proprio libretto nel rifugio dove hanno i loro risparmi.
Chi non ha nessun risparmio è Shalim, il più piccolo dei bambini della casa. Non sa quanti anni ha; alza le spalle e sorride. Non ha più di 6 anni. È venuto a Chittagong due o tre mesi fa con sua madre, due sorelle e un fratello. Sua madre ha abbandonato i due bambini in strada quando ha trovato lavoro come domestica ed ha sistemato le sue figlie in altre case. Un lavoratore sociale ha trovato Shahim dormendo in strada e lo ha portato al rifugio qualche settimana fa. Era molto triste i primi giorni, non usciva da casa, ma dopo ha imparato a vivere in strada.
“Cosa fai in strada?”
“Niente. Salgo su un pulman che va all’università e mi incontro con bambini più grandi che mi danno qualcosa da mangiare. Poi prendo di nuovo il pulman per vedere la televisione e fare cena”.
“Hai più visto tua madre?”
“No”, dice trattenendo le lacrime “però la troveranno e poi andrò con lei. Un giorno ho visto mio fratello e mi ha detto che saremo andati a trovarla. Ma lui non ha voluto venire a dormire con me. Non l’ho più visto”. Sarà uno dei 70.000 che dormono nelle strade di Chittagong.
L’ultimo arrivato al rifugio, cinque giorni fa, è Rasel, 12 anni e lo sguardo triste. Indossa soltanto un pantalone corto di colore rosso ed ha le costole tanto visibili che si possono contare. Si vede che ha patito la fame. “Sono andato via da casa due settimane fa”, dice. “Mia madre è andata via con un altro uomo e mio padre si è risposato con un’altra donna che ha cinque figli. Non mi volevano e la mia matrigna mi sgridava e mi picchiava, così sono andato alla stazione e ho preso un treno per Chittagong, perché avevo sentito dire che qui c’erano molti mercati dove lavorare”.
Si tocca una piccola cicatrice recente sotto l’occhio sinistro e dice che non ricorda come si è ferito. “Qui mi trovo molto bene”, spiega con un sorriso forzato, “meglio che in casa, perché nessuno mi picchia. Ancora non ho amici, ma lavoro nel mercato spingendo carri e ieri mi hanno dato 40 takas (50 centesimi di euro). Voglio lavorare in un ristorante”.
È l’ora di cena. La cuoca, Aìda, spegne la televisione e si siede a terra, a un lato della grande stanza, su una stuoia dove è posata una grande pentola di riso bianco, altre due ciotole di pollo con verdure e un’altra con brodo. I 60 bambini si siedono a terra in un grande cerchio e i più grandi si avvicinano per prendere le ciotole che Aìda serve. Non cominciano a mangiare fin quando tutti non hanno la loro ciotola e allora si spengono i bisbigli e si fa silenzio mentre tutti mangiano con le mani fino a lasciare i piatti vuoti.
Mezz’ora dopo consegnano le ciotole e vanno a dormire. Ci sono delle stuoie a terra e si sdraiano ammassati. I più grandi occupano i posti migliori e i piccoli cercano riparo accanto a loro. Quando si spegne la luce, piano piano, il silenzio regna nella stanza.

IL MERCATO DEI BAMBINI

La mattina il mercato di frutta adiacente alla stazione è un autentico formicaio. Nel Bangladesh le strade sono sempre estremamente affollate. I carri di legno pieni di enormi ceste di mango, ananas o verdure appena riescono a circolare tra le bancarelle, in mezzo ad un enorme ingorgo che rende il lavoro più penoso ancora. Davanti ad ognuno di essi un uomo incurvato fa le veci di animale da carico, tirando il carro. E dietro uno o due bambini tra i 12 e i 15 anni spingono fino al limite delle loro forze. Ci sono centinaia di loro lottando per trovare un lavoro. Lì troviamo Shaju, Rasel e Subuj che salutano con un sorriso senza smettere di spingere, con un enorme sforzo persino per un adulto, i carri che avanzano faticosamente tra le bancarelle. Sono solo bambini, ma devono lavorare come uomini.
Attraversare la via principale di Chittagong piena di camion, autobus, macchine, “tuc tucs” e “ricshaws” è un’autentica avventura. Dall’altra parte si trova il mercato di Riazuddin, più grande di quello della frutta e anche affollato, pieno di bancarelle di vestiti, libri, utensili… Nella zona più buia si ammucchiano decine di bambini con i loro sacchi bianchi pieni di plastica, cartoni, rottami, che cercano compratori. Alaudim è il più vivace, è riuscito a svuotare il suo sacco pieno di piccoli rottami e si porta in tasca una banconota stropicciata di dieci takas prima di ritornare in strada in cerca di altri tesori. Ha ancora dieci ore per cercare di arrivare alla somma di 70 o 80 takas e aumentare i suoi risparmi e riuscire, un giorno, ad aprire il negozio dei suoi sogni.

Al secondo piano di una specie di centro commerciale pieno di locali per mangiare sporchi, che lì chiamano ristoranti, troviamo l’altro centro dell’ONG Aparajevo. Lo chiamano “drop in center”, perché i bambini della strada appaiono all’ora di pranzo o a qualunque ora del giorno per riposare, giocare o lavarsi. È stato aperto nel 2001 e sono passati da qui circa 1.000 bambini.
Mentre aspettano il pranzo, diverse decine di bambini giocano a terra, in gruppi di quattro, a caremboard, un misto di gioco da tavolo e bigliardo americano. Devono tirare dei gettoni con le dita e azzeccare i quattro buchi posti negli angoli del tabellone. Shakil, 9 anni, è il campione. Non sbaglia quasi mai e ride ogni volta che ci riesce. È come ritornare alla vita come spetta ad ogni bambino dopo aver svolto una giornata lavorativa da uomo e una notte di sonno all’aperto.

LE BAMBINE CORRONO UN DOPPIO RISCHIO

A nord della città l’Unicef ha uno dei suoi tre centri per bambine. Il 30% dei piccoli che vivono nelle strade delle città del Bangladesh sono bambine e corrono anche il rischio di venire rapite per essere vendute ed essere inserite nel circuito della prostituzione. Nel rifugio di Khaza Road ci sono 90 bambine, 50 sono interne, le altre tornano a dormire a casa. Lì ricevono educazione, nutrimento e affetto. Hanno preparato una recita con canti e balli per ricevere gli ospiti.  La giornata trascorre nella gioia, ma in un angolo della sala attira la mia attenzione una bambina molto fragile dagli occhi tristi, capelli corti e con una maglietta lunga, che non presta attenzione alla festa. Alla fine la direttrice del centro, Nasima, racconta la storia di Tanznia che non lascia la sua mano nemmeno per un istante. “Ha 8 anni ed è qui da 45 giorni”, dice. “Un vicino l’ha trovata dormendo per strada e l’ha portata qui”.
In tutto questo tempo non sono riusciti a conoscere la sua storia e dalle sue parole non si riesce a capire molto. Risponde con voce triste alle domande, senza smettere di guardare la direttrice alla quale si abbraccia ancora più forte. Dice che vuole ritornare con i suoi genitori, ma non sa dove sono e dice che ha un fratello che era con lei in strada quando si è persa.
Lo psicologo del centro pensa che la bambina abbia avuto uno shock e vuole dimenticare tutto, non ha segni di violenza nel suo corpo. Sicuramente ha avuto uno shock per qualcosa che ha visto.
La formazione è una parte importante del progetto che mira a togliere i bambini e le bambine dalla strada. Viene insegnato loro un mestiere affinchè possano lavorare quanto prima. Vicino al centro per bambine, in una enorme falegnameria, lavorano da due mesi cinque ragazzi di 15 e 16 anni, che dormono nel rifugio di Purba Naslrabad. Presto saranno in grado di cercarsi un luogo dove vivere.

Sumon ha 16 anni e sembra il più vivace. Si impegna a fondo a passare la carta vetrata su una porta di legno al centro del magazzino dove lavorano cento persone. Lavora 12 ore al giorno, ma si sente fortunato di avere trovato questo lavoro dopo un anno di formazione e, soprattutto, perché guadagna 3.000 takas al mese (quasi 40 euro). Come molti altri bambini di strada è andato via da casa quando è morta sua madre e suo padre non gli prestò più attenzione. Aveva 13 anni e ha vissuto un anno intero in strada, fino che ha trovato il rifugio.

Molto vicino alla falegnameria, al primo piano di una casa molto piccola, lavora un’altra delle bambine tolta dalla strada. Si chiama Chappa, ha 15 anni ed è sarta. Sta cucendo una camicia in una vecchia macchina da cucire e sembra felice, seppure la sua storia non lo sia. Aveva 13 anni quando sua madre la portò in città e la lasciò in una casa come domestica. “La signora della casa mi trattava molto male”, spiega “non mi pagava, mi dava molto poco da mangiare e a volte mi picchiava. Dopo un mese sono tornata a casa dove viveva mia madre, ma era andata via con un altro uomo a un’altra città. Sono rimasta molto triste e stavo piangendo per strada quando una donna si avvicinò a me e mi disse se volevo lavorare a casa sua. Dissi di sì, ma dopo arrivò la polizia e ci portò in carcere”.
Era una trafficante di ragazze, che le attirava per strada e le vendeva per farle diventare prostitute. Chappa si è salvata per miracolo e adesso si trova nel rifugio di via Khaza, dove ha imparato un ufficio che le ha permesso di cominciare una nuova vita.

TRATTO DA DHAKA TRIBUNE