Storie – I “bambini di strada” sono presenti in tutti i Paesi del mondo, ma nonostante la drammaticità, l’estensione e la gravità del fenomeno, il problema occupa ancora troppo poco spazio nel dibattito pubblico.

TANTI NOMI PER UN PROBLEMA COMUNE

Vivono per strada, nelle fogne, sotto i ponti, in edifici disabitati, fuori dalle stazioni, hanno dai 5 ai 20 anni e oltre. In Colombia li chiamano “Gamines de la calle”, in Brasile “Meninos de rua”, in Africa “Enfants de la rue”. Cambia il modo di definirli, ma la gravità del problema resta la stessa a qualunque latitudine. Sono piccoli esseri umani ai margini della società, senza famiglia, senza casa, abbandonati, discriminati e ghettizzati, costretti a lottare quotidianamente per sopravvivere. È considerato bambino di strada “ogni bambina o bambino per la quale la strada costituisce la casa o la principale fonte di sostentamento e non sono sono adeguatamente protetti o sorvegliati” (Inter-Ngo Programme 1983). All’interno di tale definizione l’Unicef identifica e distingue i bambini sulla strada, cioè i bambini che trascorrono la giornata per strada, ma la sera hanno un posto presso cui rientrare e i bambini di strada, che non hanno nemmeno una casa o una struttura presso cui rientrare la sera. Impossibile fornire una cifra esatta relativa alla presenza dei bambini di strada nel mondo: le stime fornite dall’Unicef parlano di 150 milioni, approssimazioni che aumentano con l’aumentare della povertà e dei conflitti. Pur con differenze in termini di contesto e area geografica, si tratta di un fenomeno grave che interessa tutte le zone del mondo, ma paradossalmente, sembra che questi bambini siano “invisibili” poiché di fatto quotidianamente ignorati dagli occhi di gran parte della gente che li incontra per strada, restano fuori dalle politiche sociali dei governi, dall’interesse di giornali e dei mass media e quindi anche dal dibattito pubblico.

INFANZIA E ADOLESCENZA NEGATE

“Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione (…)”. Così recita l’articolo 2 comma 1 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (1989), principale strumento in materia di tutela dell’infanzia per 196 Paesi firmatari della Convenzione. Esiste quindi già un documento di capitale importanza come la sopracitata Convenzione, ma nonostante questo, lo scorso anno, in occasione della Giornata Mondiale dei bambini di strada, si è reso necessario un ulteriore richiamo delle Nazioni Unite, le quali attraverso un commento hanno chiesto ai governi il riconoscimento formale e la protezione dei diritti delle bambine e dei bambini di strada nel mondo. Ogni bambino di strada porta con sé una storia di povertà, drammi familiari, violenze, persecuzioni, migrazioni forzate. Ci sono famiglie che sono talmente povere o impossibilitate dalla malattia da dover mandare per strada i figli, i quali abbandonano la scuola per cercare di procurarsi il denaro necessario al sostentamento di tutta la famiglia. Proprio per cercare di racimolare qualcosa, incappano in conoscenze ed esperienze negative: iniziano a fumare sigarette, poi cannabis, sino ad arrivare al crack ed alla colla. Spesso si rendono autori di furti, si ritrovano in carcere. Una volta usciti dal carcere, anche se esprimono la volontà di essere reinseriti in famiglia (reinserimento che avviene per quelli che hanno la fortuna di essere seguiti da qualche associazione), spesso è la famiglia stessa che li rifiuta poiché considerata una vergogna troppo grande avere un figlio ex detenuto. Si entra in un circolo vizioso: problema, strada, carcere, ancora strada, ancora problemi. Spesso le politiche sociali degli stati sono inadeguate o totalmente inesistenti e non riescono a proteggere queste vite e a garantirne i loro diritti fondamentali. Diritti che vengono quotidianamente violati: vivere per strada significa farlo in condizioni igienico-sanitarie precarie; ammalarsi di HIV, tubercolosi, malaria, tifo e non avere alcuna possibilità di ricevere assistenza sanitaria; essere esposti ad ogni tipo di pericolo o violenza, abusi e sfruttamento; non avere accesso a percorsi di formazione ed inserimento lavorativo o anche solo attività ricreative. Vivere per strada significa essere invisibili.

“LES ENFANTS DE LA RUE” DI DOUALA

Il mercato Sandaga di Douala ospita circa un centinaio di “ruekass”, termine con il quale a Douala si indicano appunto i “ragazzi di strada”. Vi sono sia bambini che lì ci passano giusto il tempo di vendere qualcosa e poi alla sera rientrano nelle loro case, sia bambini e ragazzi per i quali la strada rappresenta la loro dimora. Qualcuno riesce ad organizzarsi e acquista pomodori da rivendere al dettaglio per le strade di Douala, altri trascorrono le loro giornate senza far niente, senza essere impegnati in nessuna attività. Parlando con loro si ha l’impressione che in realtà nulla è perduto, hanno ancora la forza per lottare e il coraggio per uscire da quella vita. Il più grande del gruppo, Ali ha 31 anni ed è arrivato in strada all’età di 14 anni a Yaoundé. Si è poi spostato a Douala ed è entrato e uscito di prigione due volte. È lui che, dopo aver preso coscienza della gravità del problema e soprattutto dopo aver compreso cosa vuole fare della sua vita ha deciso di cambiare. Tiene a sottolineare in modo chiaro che, è vero, lui e gli altri sono i “ragazzi della strada”, ma la strada non ha mai partorito nessuno, cioè loro non hanno scelto di vivere lì, nella gran parte dei casi sono state le condizioni economiche estremamente precarie e i disagi familiari, uniti al consumo di droghe, ad averli condotti per strada e ad aver rovinato le loro vite. Adesso desiderano formarsi, alcuni vorrebbero tornare a scuola, altri chiedono di imparare un mestiere, chiedono una vita e un futuro diversi, migliori. Diritti di cui tutti i fanciulli dovrebbero godere, anche i meno fortunati e quasi dimenticati su questa Terra.

L’essere umano riscatterà la sua condizione di “umano” quando, contemplando il viso di un bambino di strada, gli chiederà perdono per non averlo mai soccorso. Fino ad allora l’essere umano non sarà altro che un semplice abbozzo di umanità. (Washington Araùjo, scrittore brasiliano e membro della comunità Bahià’ì)

Sara Moscogiuri 

TRATTO DA IL CAFFE’ GEOPOLITICO